Ma chi è Ignazio Apolloni?

di Franca Alaimo

Il rapporto fra me e Ignazio è stato per moltissimi anni, giusto per agganciarmi al titolo di una sua recente raccolta di racconti, “a maglie larghe”. L’ho incontrato o, meglio, visto, nel 1989, in occasione di un recital di poesie organizzato a Marausa, in quel di Trapani, dall’ormai sopravvissuto a se stesso Antigruppo siciliano. Dall’alto di una torre Ignazio  recitò una sua poesia che mi fece una grande impressione, perchè mi giunse all’orecchio come una fresca, scoppiettante, quanto ineffabile cascata di suoni.
In seguito l’ho intravisto in occasione di qualche serata letteraria, ma mai ebbi modo di avere uno straccio di dialogo con lui, impegnato a parlare amabilmente con altri. Io seguivo, intanto, una mia strada: altri incontri, altri esperienze; ma i molti amici comuni di tanto in tanto mi parlavano di lui e di quello che faceva: mi raccontavano che Apolloni e la moglie Vira, durante i loro soggiorni in questa o quella città, solevano scrivere poesie sulle tende degli alberghi, sui tovaglioli di carta, sui tavoli,  che si erano fatti dipingere tutti i muri della loro casa, che erano, forse, un po’ matti; che lui scriveva favole illustrate dal portiere dello stabile in cui abitava e abita in via Trinacria; che non si dava tregua nel mostrare le meraviglie della singlossia.
Io rafforzavo la mia prima impressione di lui: inafferrabile, misterioso e extra-vagante.
Poi pochi mesi fa, complice una telefonata fattami per reperire testimonianze intorno allo scomparso scrittore ed amico comune Terminelli  sul quale si pensa di pubblicare un libro, le maglie larghe del nostro rapporto si infittiscono; lui mi regala i suoi libri, io scrivo quel che ne penso; lui mi legge, si sorprende e ci accorgiamo che abbiamo “lana” sufficiente per un golfino a trama più stretta.
Tutte le persone mi incuriosiscono; più che mai gli scrittori e, più ancora, gli scrittori che lasciano sulla carta tracce inequivocabili di intelligenza ed originalità. E leggere i libri di Apolloni mi diverte, mi spiazza, mi getta in uno spazio-tempo “in vero simile”, mi fa navigare tra realtà e fabula, fra verità e sogno; condivido con lui l’odio-amore per la città di Palermo; città  da cui vorrei come lui fuggire, spazio a cui sempre finisco con il tornare coltivando improponibili desideri di mutamento nel suo modo d’essere e di farci vivere.
Ma mi accorgo che la cosa che più mi affascina è, come già mi era capitato la prima volta in cui lo avevo sentito recitare, la lingua di Apolloni: mobile, ironica, veloce, frizzante, originale, giocata su più registri lessicali e perfino linguistici. Nei suoi testi, infatti, espressioni colte convivono con altre del parlato, parole morte o agonizzanti con altre fresche di conio;  è abbondante  la presenza dell’inglese, ma non mancano le citazioni dal francese; e soprattutto, si ha l’impressione che la lingua giochi a prendersi un po’ in giro, che parli di sé come dandosi delle pacche sulle proprie ossa: la sintassi, per esempio, l’organizzazione dei contenuti, il lessico, l’uso dei generi, tutti scavalcati, mescolati, usati per la gioia del narrare di sé, di altri, del reale, dell’irreale, di altro.
Mi chiedo da quali radici familiari, da quali esperienze, da quali incontri, insomma attraverso quali alchimie sia venuto fuori un personaggio come Apolloni.
Il 27 maggio scorso ho l’occasione di parlare con uno dei più affettuosi amici di Ignazio: l’artista Sucato,  di ritorno  a Palermo da Trapani, dove ci siamo ritrovati insieme a quanti hanno conosciuto ed apprezzato Nat Scammacca per una serata commemorativa in suo onore 
Sucato racconta e ricorda con precisione di particolari l’organizzazione delle sue prime mostre e manifesta apertamente la sua gratitudine ad Apolloni, che non ha esitato a finanziarle personalmente. Questa cosa mi sembra davvero incredibile: un artista palermitano tanto magnanimo come, che so?, quel Mecenate d’età augustea, come un Signore rinascimentale; e, soprattutto, da  dimenticare, come noto dalla faccia stupita di Apolloni, di avere svuotato le proprie tasche per dare soccorso concreto ad un  artista, come si dice, emergente? 
Ma chi è questo Ignazio Apolloni? Devo saperne di più.
Ed è così che Ignazio diventa il mio oggetto di indagine preferita da parecchi giorni; indagine che, in verità, non si rivela così difficile. Gli chiedo, infatti, se posso fargli, diciamo così, un’intervista, e lui si mostra subito (lo immaginavo!) d’accordo. Ci incontriamo nella sua bella casa: Ignazio parla volentieri di sé,e anche molto, ma sempre senza autoesaltazione, senza sfinire l’interlocutore a cui riserva ampi spazi d’ascolto partecipe. Seconda virtù rarissima: mi dico, mentre mi ascolta.
Così, man mano che Ignazio parla di sé, la mia mente e, qualche volta, la mano annotano; quest’ultima i nomi soprattutto, che mi sfuggono sempre deformandosi ridicolmente nella mia memoria troppo affollata.
Ed ecco che la sua biografia mi svela, più che i fatti, oltre i fatti, la qualità di un esistere che ha avuto tre caratteristiche fondamentali: la mobilità nello spazio, la ricchezza degli incontri e degli affetti, la volontà di essere unicamente, largamente, generosamente se stesso.
Palermo, Reggio Calabria, Torino, Roma, Parigi, New York, Los Angeles le città della sua vita: l’infanzia, l’adolescenza, gli amori, gli studi ; gli anni del fascismo, la fuga dalla politica italiana e la nostalgia della famiglia emigrata  in America; l’anima diversa ma condivisa della lingua inglese, la professione di insegnante, i fatti di Berkeley nel ’63; e poi il ritorno nel 1965 a Palermo, l’iscrizione al Partito Socialista e da qui l’esperienza di una scrittura messa a servizio, negli anni più caldi, dell’impegno politico.
Gli incontri sono stati molti e determinanti: coetanei ed adulti nell’ambiente chiuso e provinciale di Reggio Calabria,  l’alta borghesia  romana prevalentemente fascista, donne di varia personalità ed educazione intellettuale e religiosa, i  molti amici frequentati durante il soggiorno  americano, strumenti preziosi di conoscenza e comprensione di una società multietnica, efficientemente democratica, proprio perché coacervo di idee e scontri; e tra questi amici, molti attori  e cineasti dell’ambiente cinematografico hollywooddiano, molti ebrei emigrati.
C’è bisogno d’altro per capire da dove vengano fuori certi suoi racconti sull’allucinata incapacità comunicativa dei suoi personaggi di razze e/o lingue diverse, e i suoi pasticci verbali e i molti spazi in cui le vicende si ambientano, e la deformazione fantastica subita da persone, luoghi, eventi?
E per giustificare tutti quei registri narrativi che si mescolano a volte con esiti esilaranti? Pulci e Peter Sellers, Cervantes e Conan Doyle e molti, molti altri artisti di ogni spazio e tempo  si danno, infatti, appuntamento sulla scena narrativa di Apolloni con le loro tipicità ed umori letterari.
Ma senza dubbio sono state le radici di Ignazio a fare crescere la sua pianta inusuale: i nonni, uno marchigiano e l’altro siciliano; il primo generosissimo, che gestisce il denaro per la gioia conviviale e per il gusto di godere il sapore intero della vita: lavoro, famiglia, amici, divertimento. L’altro ricco, ma di una ricchezza che si traduce in accumulo di proprietà, severo, in qualche modo padre padrone, ma amante della musica, tanto che un po’ tutti in famiglia suonano un qualche strumento, frequentano i teatri. Anche questa volta lo scontro fra due modi diversi di sentire la vita, e due ritmi verbali e spirituali contrapposti.
Il papà è un mangiapreti, antifascista, orgoglioso, puntuale, bravissimo nel campo del lavoro, diventato, dopo uno sciopero, organizzato dagli operai  ai Cantieri Navali di Palermo, nel 1917, e represso con la forza , un accanito sindacalista. Egli è un affabulatore di sé e della propria vita che racconta al figlio Ignazio giovinetto, senza saper quanto tutto ciò diventi  in lui mito, e cioè forma del sentire e del vedere la realtà e la  società.
Due risposte di Ignazio mi colpiscono. La prima segue alla domanda: “Perché scrivi?”. Mi risponde: “La scrittura è una cosa squisitamente genetica” e mi parla con ammirazione della cultura ebraica che educa tutti alla lettura della Torah e alla meditazione sulla lingua, e da lì vien fuori tutto un disquisire sullo scientismo e l’evoluzionismo e la Ragione. Conclude che la scrittura è presente nel DNA di ogni buon scrittore.
L’altra risposta, ancora più interessante, è data alla mia domanda. “Che cos’è per te la lingua?”
Perché Ignazio parla a questo punto dell’insufficienza della lingua, di parole gabbia, che negano il futuro, di limiti definitori, di strettoie da evitare; e ho nella memoria la sua tessitura verbale, il suo sconfinare dai generi, dall’ordine sintattico, dagli esiti troppo scontati; ho in mente molti suoi racconti che non hanno un vero e proprio finale, che lasciano spazio all’immaginazione, al dubbio del lettore. Soprattutto mi spiego perché egli abbia operato prima a favore della poesia visiva, maestro Eugenio Miccini, e in seguito, superandola, a favore della singlossia, teorica la semiologa Apicella, nell’intento di moltiplicare nel più alto numero possibile, i linguaggi, che è come dire rappresentare da molteplici punti di vista l’uomo, la realtà, il loro rapporto.
Da qui a immaginare, come poi dice, una società senza strutture il passo è breve. E senza strutture non vuol dire senza etica, essendo per Ignazio l’etica piuttosto una libera adesione al bene senza costringimenti, senza sovrastrutture religiose, senza fanatismi o ideologismi, cosa che assicurerebbe, a suo parere, pace, tolleranza, libera convivenza.
La nostra conversazione, quindi, ritorna alla città di Palermo, dove risiede ormai dal ’65 e non può non cadere sull’Antigruppo e sul ruolo da lui esercitato sulla sua nascita e sul suo sviluppo.
Ignazio ricorda volentieri la sua attività politica come militante del Socialismo, gli incontri con Nino Buttitta, Giacinto Lentini e, dopo il ’68 francese, l’arrivo a Palermo del presidente dell’ARCI dell’Emilia, che lo invita ad aprire una sezione a Palermo, che in effetti trova la sua sede in via Mariano Stabile. Qui verranno a trovarlo Nat Scammacca, Crescenzio Cane e Pietro Terminelli che vogliono alzare la loro voce di protesta contro i gruppi intellettuali dominanti a favore di una letteratura comprensibile alla classe proletaria.
Saranno organizzati da lui molti recital di poesie, distribuiti ciclostilati, promosse manifestazioni di piazza e la poesia murale; ad Ustica per cominciare e, successivamente, nelle Camere del Lavoro di vari paesi e città siciliane. Il modello è il poeta russo Majakovskij. È nato così l’Antigruppo a cui molti si interesseranno: Melo Freni, Sciascia, Danilo Dolci, Roversi, Mariella Bettarini, Zagarrio,il regista Zavattini; e, ancora, Rolando Certa, Santo Calì, Gianni Decidue, Ignazio Navarra, Carmelo Pirrera e tanti altri. Nell’anno 1973 l’Antigruppo presenta, in occasione del Convegno Nazionale degli Scrittori a Bologna una ponderosa Antologia in due volumi che racconta la storia dell’Antigruppo e pubblica testi in linea con il movimento.
Ma l’Antigruppo ha molte anime, tenute insieme spesso soltanto in nome di una teorizzata tolleranza: sicché dopo gli anni ‘70 la sua carica eversiva può dirsi terminata, pur continuando ciascuno dei suoi componenti un suo percorso. Il recital di Marausa, nel 1989, a cui pure io partecipo e durante il quale conosco, come dico all’inizio di questa mia, Ignazio Apolloni è la celebrazione della sua fine. A me comunque servì per stringere una bella e feconda amicizia con Nat Scammacca e Pietro Terminelli e per ritrovare, trascorsi lunghi anni, Ignazio.
Mentre parlo con lui, durante qualche pausa (il telefonino, infatti, squilla più volte), guardo la sua casa; quella casa tante volte descrittami da altri. Cos’ha di speciale? Niente, se però sovviene che è la casa di Ignazio Apolloni; nel senso che ne rispecchia la vitalità, la fantasia, l’amore per la vita ( “Io non ho mai scritto la parola morte”, è una delle sue affermazioni più curiose), la naturale disposizione alla singolarità: alcune pareti sono affrescate da Salamone e da Zito; i collages, i disegni sono per lo più di Zito, le porte, le sculture in legno + chiodi ed altri insoliti materiali sono di Sucato: una testimonianza dunque della sua capacità di sentire ed operare in perfetta sintonia con gli altri, della sua inclinazione a valorizzarli, ad aprire loro i suoi spazi privati.
Ignazio mi aveva invitato qui a parlare del suo ultimo libro; L’amour ne passe pas; ma, dopo la nostra chiacchierata mi è venuto in mente che potevo, invece, assumermi il compito di presentare l’uomo e lo scrittore in modo più completo e ravvicinato di quanto possa fare una qualsiasi, pur completa bio-bibliografia.
E tuttavia voglio dire qualcosa di questa ultima opera  di Apolloni, proprio perché essa ha attinenza  con quanto è stato detto fino adesso del suo scrittore. Per esempio la scelta delle destinatarie: non solo italiane, ma francesi, americane, inglesi, spagnole nel segno di una cultura internazionale; non solo donne storicamente vere, ma anche eroine mitologiche o dei fumetti o della letteratura, nel segno dell’amore per la fantasia, l’immaginazione e la favola; e non solo donne per una sorta di galanteria maschile che rende omaggio alla femminilità e alla bellezza, ma soprattutto per desiderio di liberarle da ogni pregiudizio etico e sociale, nel nome di un impegno per una società migliore senza barriere di alcun tipo. E per finire. In questa, come nelle sue opere precedenti, c’è un’ironia frizzante, un esercizio della lingua come ludus e come inventio, un’attenzione all’ascolto dell’intima essenza di ogni personaggio, un tono che giocosamente affronta temi seri.
Quando non si danno differenze fra l’uomo e lo scrittore, siamo davanti ad un’operazione letteraria vera; siamo davanti ad una persona intera. 
Galeotto fu il libro…ossia quello a maglie larghe che ha fatto passare sentimenti d’amicizia e di affinità intellettuali fra me ed Ignazio.

Pubblicato su Oggi 7, settimanale di America Oggi, edizione del 13 Gennaio 2008, pag. 20, con il titolo “Apolloni, chi è costui”?