Possiamo fare a meno di loro

Nicolò (il mio amico Nicolò) conosce le profondità dell’arcano; le viscere che cor­rono come fili di ottone, o fibre ottiche sotto il manto stradale, e lungo le quali arriva la trasmissione del pensiero; la linfa vitale sulla quale questa città sembra gal­leggiare come fosse un isolotto di gomma sopra il mare. La sua china (lungi dall’in­chinarsi alla logica del tout va) sa trarre dal bianco gli spazi da occupare. Nella successione storico-spaziale, temporale che ci vuole per cogliere nel segno, il suo segno frantuma la carta in centomila miliardi di rivoli tutti diretti a complicarti la visione, a rendere la visione più una percezione che una cosa compiuta. Non fosse per i suoi ritratti di volti di donna (a volte perfettamente coincidenti con il veduto o il vissuto) diresti che in lui esiste solo il magma (come dire la colata di lava che lava e brucia tutto al suo passaggio). Ma non è solo questo Nicolò D’Alessan­dro, come dire che non è soltanto un navi­gatore solitario su una nave dei folli. È ben altro e ha ben altro da dire. Se prestate attenzione al suo eloquio lui vi dirà di quando un navigatore solitario (lui stesso) salì su una nave, prese il largo, si recò in Lapponia e da lì scese fino in Slavonia. Lungo il sentiero (fitto di mistero perché gli aghi dei pini pungevano i piedi facendo sollevare mille ahi! lungo il cam­mino) incontrò prima Bruegel poi Bosch con i quali si mise a fare una schermaglia. Vinta la partita e sazio per aver mangiato più di un pinolo pensò bene di scendere al sud con un’armata di banditi. Questi non erano altro che protestanti che ovviamente protestavano piuttosto inascoltati. Fu da questo impatto che gli sarà venuta voglia di protestare e di scrivere all’occorrenza di emergenze culturali, come se parlarne facesse venire meno l’emergenza.
E invece sì, perché parlare si deve – ed agire. Come?
Prendendo coscienza (e prendendo per mano il proprio destino). Sarà pure vero che i giovani si aggregano (diventano gre­gari) in gruppi omogenei: quelli che fumano la pipa, che fumano e basta o che non fumano affatto. Sarà vero altresì (bello quest’altresì) che alla spiaggia d’e­state alternano l’inverno in città, come qualsiasi altro cittadino di una città. Per quello che so però gli spazi dove fantasti­care nei meandri dell’incoscienza ci sono: basta passare qualche ora in un luogo riser­vato all’ascolto di musica dal vivo (con­trapposta a cosa: a musica dal morto?). Nei pub, mio caro Nicolò,  c’è vita (e c’è spe­ranza). Tra un bicchiere di birra e un bic­chiere della staffa, a notte fonda (quando tutto sembra affondare nell’oblio) ci sono spazi per la fantasia che dovresti esplo­rare.
Ne verrebbero fuori sai quanti Apocalissi e quante Babele, visto il mistilinguismo che vi si parla. Io stesso mi sorprendo (quando ci vado vuoi per prendere una boccata d’aria, vuoi per prenderne una di fumo che non finisce mai) nel sentirmi preso dai turchi. Non che ci siano i turchi, questo no, e nemmeno biondi gitani.
Mi dirai che la genetica esclude che ci siano gitani biondi e invece può succedere di vederne in questi luoghi di aggrega­zione. Guarda ti faccio un esempio. Sono andato a vedere una mostra (risultata poi un mostro), c’erano spartani, tebani, ate­niesi, piemontesi.
Insomma una cosa internazionale. Fin qui niente di strano. I quadri erano appesi alle pareti; le pareti erano appese alla loro son­nolenza; il pubblico mangiava peanuts e schiacciava tra i denti patatine e pisolini. Mi sarei annoiato e sarei andato via senza nemmeno brindare al successo di quel­l’arte (che più che un’arte sembrava l’arte di arrangiarsi) se non fosse che c’era tra il pubblico un gitano, biondo come una birra.
Tu conosci la mia curiosità. L’ho preso da parte. L’ho protetto dalla schiera di curiosi che volevano saperne di più, lui comincia a roteare sui tacchi, si mette una mano dietro la schiena, alza l’altra e aspetta il via, avessi visto il fragore degli applausi quando ebbe finito, chi si chinava davanti a lui per fargli la riverenza, chi voleva l’autografo, chi gli stava disegnando a china il profilo (ed eri tu).
Ti ho riconosciuto, sai, dalla velocità della mano che disegnava uno schizzo da elaborare più tardi. Ho visto il faro dei tuoi occhi – solitamente febbricitanti quando parli di emergenza cultura a Palermo e vorresti risolvere le cose con il classico ginocchio – inondare di luce quel povero Cristo perché venisse meglio sulla carta (una volta che lo avessi trasferito sulla carta da stilo). Anzi ho notato pure che la gente si chinava sopra il tuo collo per vedere cosa stessi facendo.
Non avendo capito proprio niente (ma chi può capire un grande, un macedone come il D’Alessandro) un po’ tutti se la sono squagliata. A testimonianza della serata è rimasta la cera (o Dio che bella cera). Ma perché ti sto scrivendo questa lettera (che più e meglio di una lettera vuole essere una Pasquinata contro il potere).
Ti ricordi quando si diceva potere ope­raio e invece il potere è rimasto tale e quale? Mi dirai: perché non cambiare for­mula e parlare oggi di potere ai pittori? Ma anche questo ti sembra logico? Te l’immagini un potere tout court (nel senso di tutto corto) che programma, riceve nel­l’anticamera i questuanti, si porta nella camera da letto le questuanti, predispone questionari e fa finta di chiedere l’opi­nione degli altri?
Io oggi non ci sto (ma non ci sto più nean­che con la testa) a fare simili patti con quelli che stanno nella stanza dei bottoni. Io di quei signori faccio a meno e se pro­prio è necessario li aiuto ad abbottonarseli quei bottoni. Che ci si strozzino (se prove­ranno ad inghiottirli); che li usino al posto della cerniera (così faranno più fatica al momento del bisogno, e magari se la faranno addosso).
Non so chi è che diceva parlatene male ma parlatene sempre. Qualcun altro ha detto il potere logora chi non c’è l’ha, e magari finirà alla gogna. Di gente che merita la gogna ce n’è tanta. Che si faccia sotto – la ghigliottina – e troverà qualcuno che allenterà la corda che tiene la lama. Credi a me (anzi non credere neanche a me). Fai la tua parte, però poi mettila da parte. Credi anche a te stesso e alle tue illimitate forme di scrittura anelastica, così suggestive da lasciare di stucco. Con questa immagine: una statua di stucco del Serpotta ti lascio. A bientòt de te voir plu­tôt que te lire.

Ignazio Apolloni
Passpartù, Marzo 1996

Pubblicato sul volume di Nicolò D’Alessandro
“Disegnare non stanca. Tarocchi ed altre figure”
Sellerio, 2001, pag. 192